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Marcello Venturoli intervista tratta da La pittura di Attilio Alfieri, in catalogo Attilio Alfieri, Edizioni Cortina 1980

[...] Per comprender bene la complessa figura del nostro pittore m'è necessario premettere che la sua anima artistica è sempre stata sensibile a due istanze molto diverse fra loro, fin dal 1933 anno in cui il pittore, per la frequentazione del gruppo di artisti e critici di via Solferino 11 a Milano, ambiente divenuto ormai leggendario, si aprì alle avanguardie: già nel '33 vediamo Alfieri sul binario dell'espressionismo astratto e, insieme, su quello figurativo, della pittura consumata di cavalletto. Dieci anni dopo, da una parte lo vediamo impegnatissimo nel ready made, nel collage, nel manifesto, con saggi finali degni di museo, tra le opere più aperte all'avanguardia dopo i futuristi e i metafisici, dall'altra saggiamente pensoso in una pittura tutta tele e pennelli, realistica, per non dire familiare e intimistica, i personaggi della guerra e della fame, i suoi "cocci", una sorta di demolizioni o distruzioni per pantomime astratte, scene di drammi di artista da cavalletto. E che dire delle opere eseguite dopo il 1960? Anche qui le due tendenze, la espressionista e l'astratta. Come è potuto accadere questo, l'ho chiesto all'artista, non certo per attingere da lui la verità, piuttosto per far leva con la mia sulla sua "versione". A.A.: Io me lo spiego non solo a seconda dei momenti interiori - ha voluto precisare - ma anche in virtù delle richieste. Forse la mia oscillazione fra "pittura pittura" e no, è dovuta al dialogo che dovevo fare, alla destinazione della mia arte in questo o quel momento differente. M.V.: Questo può spiegare, se mai, la causa prossima, ma non la costante di una qualità, in direzioni così diverse. Potevi per esempio, tu pittore così prezioso ed esigente, fare cose "decorative", per tornare al cavalletto senza concentrazione e quasi col complesso del pittore di Fiera. A.A.: Cercherò di far capire come andavano le cose. Le grandi industrie mi chiedevano di realizzare dei pannelli-cartelloni, da ingrandire in una parete di quattro/cinque metri per sei. La commissione mi veniva tramite gli architetti. Per esempio l'architetto progettava per la Montecatini un insieme e poi in base allo spazio e all'argomento chiamava i pittori. Mi aiutava molto uno stato di grazia, avevo una grande preparazione artigianale che mi permetteva di liberarmi completamente dalla pittura di cavalletto e andavo libero, davo adito alla mia fantasia, se l'argomento mi interessava come elemento apologetico di quel dato prodotto, mai programmando una tendenza. Altrimenti mi sarei messo in un gruppo, avrei fatto manifesti programmatici; ma io ero un angelico ignorante, sono sempre stato un forastico. Quegli industriali, perché poi ebbi diretti rapporti coi loro uffici di propaganda, mi dicevano: "mi faccia la storia dei tessuti...". Io ricorrevo alla foto e non potevo andare ai pennelli e alla tavolozza, dovevo essere esplicito, dovevo fare la pubblicità, le prime gigantografie fotografiche le ho fatte io, servendomi da Crimella, famoso poi in tutta Europa. Certo potevo fare, come mi dici, delle cose puramente strumentali, dei banali cartelloni, dal punto di vista artistico. Beh, devo dire che io ho sempre operato anche in virtù dell'intelligenza di Edoardo Persico, di cui fui molto amico, di Giuseppe Pagano, di Terragni, di Bianchetti, di Cesare Pea, giovani di eccezionale valore, che non potevano certo accettare il Liberty nel gusto delle Fiere, già così razionalista ed avanzato. Io per loro funzionavo. Certo la mano mi aiutava moltissimo, io avevo già fatto tutto, il cartellonista, il muralista, il vetrinista, il verniciatore, l'imbianchino... M.V.: Così, quando tornavi allo studio, come ti comportavi di fronte a quella che Guttuso chiama "la bella pittura"? A.A.: Quella specie di euforia quella gioia, quella freschezza, (lavoravo tre mesi di seguito in Fiera) non entravano con me nello studio, almeno le prime settimane. Le pareti di via Solferino non mi davano più emozione. Nel '33 lavoravo molto alla Fiera, morì mia madre, mi trovavo in una condizione disperata. Avrei voluto dipingere un anno di seguito. "Perché non mi metto a fare la fame - mi chiedevo - perché non ho il coraggio di obbligarmi a non far niente, nel senso di vietarmi il mio mestiere di imbianchino? Beh io ho sempre sofferto in un altro modo, io a via Solferino 11 ero l'unico che pagava l'affitto. Insomma ho provato a dipingere, a fare una figura così, per cominciare un tipo di routine, ma poi ecco, ti faccio vedere che quadro venne fuori, è intitolato nelle mie precedenti monografie Entro la gabbia dell'inconscio, era una figura, vedi che ci sono gli occhi qui; ma poi ho preso la spatola e ho fatto delle grandi cancellature a mulinello, un gesto nevrotico, è stato un momento così, di un'ora nemmeno. M.V.: Per la verità il quadro, del 1933 è molto bello, una specie di groviglio-sudario, tradito dal bianco e nero della riproduzione, (anzi per me quasi illeggibile in bianco e nero, come diverse altre opere "espressioniste astratte" di Alfieri che vidi in passati cataloghi e monografie) ma nell'originale, con quella luce aurata nel verde marcio del fondo, quei segni solo in apparenza violenti, che si ricompongono come ingabbiando un volto fin quasi a cancellarlo, danno l'idea emblematica di un divenire, di un voler essere diverso, nell'astrazione misteriosa dell'immagine; più che una pittura, è, questo quadro, il ritratto del dipingere, anzi del modo di dipingere di Alfieri in quel momento. E, si sa, per lui non esistono "periodi", esistono "momenti", me lo ha dichiarato diverse volte nel giorno in cui sono stato al suo studio di via Pantano 17, a Milano. Stavo pensando - dissi - che la tua fase espressionista ha le medesime impennature, le medesime urgenze e necessità di rapimento della tua fase pre pop di show pubblicitari per via di polimaterici con "oggetti trovati" e foto. Tu che ne pensi? A.A.: Sono d'accordo con te. Fu Franco Russoli ad osservare che il mio contatto con gli architetti degli anni Trenta è stato utile, anche come contrasto. Io ho fatto il collaboratore dei Persico e dei Terragni, ma mi sono anche ribellato al loro razionalismo. M.V.: Mi mostra quattro "archetipi" o disegni, ormai famosi - ricorrenti e giustamente in tutte le sue monografie - del 1933, eseguiti con un senso precorritore dei tempi, ectoplasmi di vertebre informali, personaggi, se non dell'angoscia, dell'apparizione esistenziale in cui Wols, se proprio non si sarebbe riconosciuto, avrebbe molto fantasticato. Omaggi, questi, a "Casabella", all'architetto Pagano, all'architetto Terragni e a E. Persico, eseguiti in occasione della Triennale. A.A.: Mi dicono: "tu, pittore, siccome stiamo facendo la prima Triennale di arti decorative e c'è un ambiente razionale, ci devi inserire degli elementi decorativi, in funzione della struttura". Ecco, questi furono ingranditi settanta per cento centimetri, erano in un passaggio che davano ai grandi affreschi di Carrà, De Chirico ? anche lui fece la sua paretona ? Funi, Ferrazzi, Sironi, Severini, che realizzò un mosaico. Erano tutti lì, ma forse il pezzo più bello era quello di De Chirico, gli altri erano troppo pittori soltanto. Ci metterei anche Sironi. Tecnicamente erano insuperabili Ferrazzi e Funi. M.V.: Come ti sei trovato con questi artisti? A.A.: Con Sironi ho avuto rapporti di amicizia, lavorava anche lui per la Fiera, per la Breda, la Fiat, quello che mi disse Sironi mi è rimasto in cuore, soprattutto su un pezzo che ora ti faccio vedere. M.V.: È un quadro del 1939, niente meno, libero, aperto, estroso, materico come e più di un informale. È intitolato Africa. Con forti cromie incandescenti e zone di riposo, candente in biacche, abbulinato di gravi nerofumi, con una perla di mass media che affonda nella notte dei tempi, un collage col Corriere. A.A.: Fu fatto per una vetrina alla Fiera, il prodotto africano, qui ho pensato questa specie di tatuaggio e poi questo deserto e per dare il senso del commercio inserii un pezzo di Corriere, vedi, si legge bene anche adesso "Italia Impero centesimi trenta". Io stavo a lavorare nel mio buco alla Fiera, passa Sironi, ero un ragazzo rispetto a lui, anche come pittore; allora io nascosi il quadro, ma lui lo volle vedere a tutti i costi, era molto umano coi giovani. "Eh - disse - fra vent'anni questo quadro sarà un capolavoro (veramente ne sono passati quasi trenta) qui c'è tutta l'Africa". Ero un po' il braccio destro di Sironi io; anche di Funi. Ero antifascista però. La Scuola Umanitaria mi fece professore di affresco e decorazione senza tessera... M.V.: Ho voluto provocarlo ancora sulle sue anticipazioni informali degli anni 1935 e cercando attentamente nel suo studio magazzino dove egli tiene buona parte della sua produzione (vende pochissimo perché è tremendamente affezionato alle sue opere, ogni cosa che dà via, col contagocce, è come se si levasse un dente sano, vende solo quando non ne può fare a meno) ho scovato cinque disegni colorati, espressionisti astratti, a mio parere bellissimi. Gli ho domandato come gli fosse venuta l'ispirazione di realizzare quelle immagini così poco figurali e prive di simbolica, diretta, testimonianza. A.A.: Forse tu non sai che mio padre e mia madre erano fruttivendoli: io andavo sempre in campagna e traversavo ogni giorno il Musone, un fiume presso Loreto; nello specchio dell'acqua vedevo riflesse certe forme straordinarie, impalpabili, forme che nella memoria mi sono restate come condizione di andare scalzo, di tuffarmi nell'acqua, quella dolce e quella salata... M.V.: Va bene, ma cosa volevi descrivere precisamente? A.A.: Niente. Le siepi, le fratte, ci si andava sopra coi piedi, le canne. Vedi queste cosette? (Allarga il braccio verso il quadro, come aprendo un sipario, il suo viso di mastino è dolce dolce) io vendevo fave, lupini, nel mio subconscio forse questi segni sono dei frutti. E questo qui è sempre il fiume, la piccola cascata, tutte emozioni emerse. Ma forse tu mi domandi il preciso momento del mio "fare", cosa provavo e volevo dire in quel giorno? È tutto dovuto alla reazione quasi stagionale, il mio nuovo ritorno a studio, volevo "insolferinarmi" a modo mio; al cavalletto sì, ma un cavalletto specialissimo, fischiettavo molte arie di Rossini, la Gazza ladra, sai, da piccolo suonavo il clarinetto in mi bemolle, eccolo lì tutto polvere; anche i mulinelli di quest'altro disegno sono fatti fischiettando, ero troppo stanco per prendere di petto la pittura costruita con tanto di strati e velature. Tu trovi Pollock e Kline ante litteram in questi disegni colorati del '33? Facevo delle specie di monotipi sul vetro e sul marmo, delle sovrimpressioni nella carta, erano simboli, io sono stato sempre molto religioso, ho cantato anche in chiesa, di certi segni ti rendi conto dopo. La stessa cosa nacque per un quadro che intitolai Psicoschermo. Lavoravo per la Rai e dovevo fare cartelloni sempre alla mia maniera libera su strumenti ottici e sul cinema e in quell'ambiente venivano proiettati i prodotti sullo schermo. Ritornando dalla Fiera ho voluto fare questo schermo come un'icona del prodotto proiettato, però ho tolto le immagini e così sembra un televisore, quando ancora il televisore non c'era. Allora non c'era neanche il termine "cinetico", si parlava di "dissolvenze" e, infatti, a ben guardare, si tratta di immagini che un po' si muovono, si tratta di quel movimento che cogli all'interno del visibile; il movimento di ciò che vedi con gli occhi della fantasia, come dice Klee. M.V.: Per contribuire alla ricerca critica della tua identità di artista - ho proseguito - voglio che tu eserciti la tua pazienza nell'ascoltare quanto adesso ti dirò, quasi sotto forma di rimprovero. Mettiamo qui davanti a noi delle tue opere finali, di fisionomizzazione massima, tali che ciascuna sarebbe potuta essere la madre somigliantissima di altre venti almeno e che tu invece hai lasciato quasi... nubili. Ecco, Rosso e Verde del periodo pre-espressionista astratto, già in epoca di "Corrente", ma non correntiana quanto a trattamento di materia e coscienza astratta dell'espressionismo; ecco tre delle tue Vetrine dagli schemi alla Braque, in cui il senso araldico e splendente del dolore ti fa uomo della avanguardia storica senza complessi e devozioni, alla pari; e poi Carciofo I, di proprietà Diolaiuti, e Carciofo II due pezzi di straordinaria compiutezza cromatica in chiave informale, antesignani dell'ismo informale e non soltanto in Italia... A.A.: Eh! scusa se ti interrompo, questo quadro che dici fu mandato al Premio La Spezia ma siccome allora era in grande auge il realismo sociale (in commissione c'erano Russoli, Morlotti, Guttuso) mi scartarono... M.V.: E pensare che questi cordoni di cromia in Rosso e Verde rievocano, più che il Morlotti di dieci anni più tardi, la materia del gruppo Cobra, mi riferisco in modo particolare alla versione allungata dei due motivi abbastanza simili, tra rosso e verdi intensi di tubetto, gamme splendenti tipo Secessione; penso a un Appel nel senso che la visione non si appoggia al gusto tonale di una memoria più o meno fisica apparsa, ma all'urgenza di un'immagine interiore che si strappa gioiosamente da dentro e viene fuori araldica. L'altro invece è più composto, la tessitura delle pennellate smeraldo e lacca è più circolare e amalgamata. Ha impressionante l'habitat di natura morlottiano del '60 o giù di lì in quest'opera del '39-40. Credo che molti ti avranno domandato a questo punto perché mai tu non abbia messo fine al tuo vagare, non ti sia fermato in un "filone" dei due perseguiti. A.A.: Mi interessa di più dirti come mi piacque di fare i due quadri rosso-verdi che abbiamo davanti. L'idea mi venne dal fascinoso bersò di Leonardo al Castello Sforzesco..., però devo risponderti; anche Valsecchi ha fatto la tua osservazione. Disse: "Talento ne ha da vendere, peccato che un bel momento non si sia voluto fermare". Non mi sono fermato per motivi contingenti, perché non ero legato a un mercante... Non riuscivo ad adattarmi a un committente collezionista o gallerista, mi pareva e in parte mi pare tutt'ora, di non essere più libero nella fantasia, nell'ispirazione. Sotto un certo profilo ero bloccato. Una volta Cairola mi chiese che gli dipingessi un cappello da bersagliere, ma non lo feci. Alla Fiera ero diverso, sviluppavo l'argomento, in fondo quel lavoro lo avevo sempre fatto. Quelle vetrine le ho ideate senza che nessuno mi invitasse, le accettavano come cartelloni; eravamo pittori da Fiera, da buttar via. Ah se avessi trovato un incitamento.. M.V.: Tu stai ora parlando come se avessi sbagliato tutto. A ciascuno se stesso, nella misura dei suoi errori; che tante volte non lo sono. Io per esempio non credo che tu non ti sia fermato in tempo, tu hai tessuto i due modi, figurale e astratto nel gusto europeo, di volta in volta. E sei stato in apparenza contradditorio soltanto negli anni Trenta, quando coesistevano in te due pittori. Ma se guardiamo allo sviluppo complessivo della tua arte, anche sfogliando una tua monografia, non vediamo contraddizioni, piuttosto lo sviluppo di fasi precedenti. Per esempio il periodo astratto del '33 non è in contrasto per niente con tutta la tua attuale opera grafica di nature morte litografiche e di grandi quadri in bianco e nero con l'inserimento di alcuni fatti fotografici ingranditi a collage. Eppure le tue opere espressioniste degli anni Quaranta proseguono nel 1953 (so che per dieci anni, dal '43 e '53 hai dipinto molto poco), fino al 1966 come nei quadri splendidi Natura decomposta, Arcano (1961) con quegli ori consunti di scorze, dentro velluti di spazi. La vita di Attilio Alfieri, se io dovessi raccontarla in un libro di "vite di artisti italiani" la dividerei o raggrupperei in tre momenti, l'infanzia e prima adolescenza; via Solferino e l'ambiente milanese degli anni Trenta; il dopoguerra immediato, tra ultime Fiere, bombardamenti, pittura grama e clandestinità. Nato a Loreto, non è marchigiano per caso; gli resta della sua terra di origine il misticismo e l'industre buon senso, la vitalità, la frugalità, la bontà: le parole che gli dedicarono poeti come Carrieri e Gatto, sono il riconoscimento di una loro anima comune. A.A.: A Loreto stetti fino al '23 come aiuto dei genitori, alternando il mestiere di imbianchino presso mio fratello maggiore decoratore e verniciatore. Già da allora mi divertivo a dipingere paesaggi coi colori in polvere impastati alla colla. Tutti giuravano che sarei diventato un artista. Quei signorotti di campagna ci tenevano ad avere dipinto in casa un paesaggio murale e alcuni mi avevano anche promesso che avrei ottenuto la "borsa picena", araba fenice che non giunse mai, per mandarmi all'Accademia di San Luca a Roma. Io sognavo che sarei partito salutato da grandi spiriti, un tempo di casa nelle Marche, Melozzo da Forlì, Crivelli, Signorelli, mentre la basilica di Loreto rutilava sorridente di tutti i suoi ex voto e tesori d'arte. Non successe niente di tutto questo. Col pianto di mia madre e le bestemmie di mio padre, me ne andai, anzi scappai. M.V.: Tra stuccatori, verniciatori, imbianchini a cinque lire la settimana, (di cui una parte mandava a casa) Alfieri arrivò da Piacenza a Milano. Fu salvato da uno straordinario decoratore barocco che lo prese a benvolere, lo appoggiò a Brera nella scuola serale, che affrontava dopo le diciotto, e poi al Castello Sforzesco, dove era una specie di università serale dei poveri, le serali superiori, che frequentò fino al 1927. Fece quindi due anni in Brianza con Giovanni da Busnago, abilissimo "alla smaffera" cioè a braccio, nel dipingere i Navigli. Se lo portò con sé ad Olgiate Calco sull'Adda, dove c'è il lago di Pusiano, presso il quale Segantini aveva dipinto il famoso quadro dell'Ave Maria. Tutte queste vicissitudini di mestiere, di incultura tradizional proletaria non portarono Attilio Alfieri alla ribalta. La ribalta venne col ritorno a Milano, nel secondo periodo, senza dubbio il più di leggenda, della storia del nostro artista. Erano tutti all'abbaino, dove si pagava di affitto trecento lire all'anno, "neppure una lira al giorno". A.A.: Ci sarebbe da scrivere un romanzo su quei tempi - rievoca pacatamente il mio biografato - Persico e Birolli erano i miei interlocutori dialettici, anche Carrieri, che parlava moltissimo, sempre alle prese con Persico; Sinisgalli e Quasimodo, ecco altri due poeti, che mi hanno sempre voluto bene. Carrieri si era un po' accostato ai futuristi, Munari veniva a trovare il futurista Andreoni, anche lui molto informato e pugnace. Ci vedevamo anche alla Galleria Pesaro, a via Manzoni dove ora è un ristorante; Marinetti era di casa lì, con Prampolini, un altro che la sapeva lunga. Poi sorse la polemica contro i futuristi, Persico diceva che Marinetti era stato salutare, ma che era tempo di smetterla. Ah sì, ora che ricordo, venne a via Solferino anche quello di Perugia, Dottori. Chi c'era? Mi basta chiudere gli occhi e vedo uno studio dentro l'altro, quasi come camminamenti, trincee dell'arte, Birolli, Lilloni, Spilimbergo, Del Bo, Mafai, Bini, Giovanni da Busnago, Mantica. Andavano anche a "Il sorriso d'Italia", un caffè degli artisti oppure a via Palermo "Ai vini sardi" dove si facevano eccezionali bevute. Si capisce che questo clima fraterno non è tanto diverso da qualunque altro rievocato di artisti amici, sia a Roma che a Parigi, in quegli anni e, magari, anche in epoche diverse. Ma a via Solferino c'era davvero un clima riconoscibile, del quale io per primo profittai in modo determinante, anzi essenziale. Persico era un cattolico militante, io un mistico, non c'era un atteggiamento "fascista" servile della nostra impostazione culturale. E poi la statura di Persico, culturalmente parlando, era davvero europea. Dirigeva "Casabella" dove scriveva d'arte magnificamente anche Giuseppe Marchiori, faceva conferenze e dibattiti a "Il Milione", le manifestazioni artistiche in quella storica galleria dell'avanguardia italiana le dobbiamo a Persico. Fu lui l'ideatore della mostra del "bianco e nero" alla Triennale del 1933 dove Fontana fu uno dei primi a collaborare, mi ricordo con una sala tutta bianca, molto suggestiva. Nel '33, proprio nello stesso anno della morte, Persico organizzò una mostra di Scipione. Io mi sono aperto in quella vicinanza illuminante.