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Giorgio Kaisserlian in 15 disegni di Attilio Alfieri, catalogo, edizioni del Milione, Milano 1959

I disegni che Attillo Alfieri ci offre sono il risultato del suo lento e meditato lavoro. Se ne potrebbero individuare le origini in quei dipinti non figurativi degli anni quaranta, dei quali abbiamo già parlato nel presentare una monografia sul nostro pittore e che hanno meravigliato, in questi tempi, molti amici disattenti che non sapevano di quali scatti lirici d'inventata libertà Alfieri fosse capace. Ora, comunque, la ricerca di Alfieri si è fatta più sottile ed interiore. Oltre le immagini quotidiane, egli persegue una musica di accordi visivi che la sua fantasia, sollecitata da una nuova volontà di rischio, gli sollecita. E sono delle immagini fresche e vive, ricche d'umori, talvolta allusive e permeate di una viva sensibilità di tutta la cultura d'oggi, che vengono alla ribalta. I disegni di Alfieri possono anche essere eseguiti d'un fiato: essi sono inevitabilmente complessi, perché complessa è l'anima di colui che li genera. I ritmi, che il loro disporsi sul foglio di carta determina, non sono infatti semplici, ma contrappuntistici, fitti di dissonanze dominate. Il dato primo sembra un fondo assorto e vibrato, come un insistente prolungarsi di un'esperienza post-impressionista: è dagli acquitrini e dalle palafitte della sua terra, dagli oggetti più dimessi e dimenticati, che improvvisamente scatta per lui l'invito all'espressione più libera e solitaria. E il vibrare indefinito di un attimo di queste terre e di questi oggetti costituisce l'oasi di poesia ove Alfieri trova la sua migliore forza espressiva. Ecco però che su questo fondo s'innesta una grafia dai tralicci estrosi e dalle forme mosse ed irrequiete. Talvolta, quando il ricordo della realtà naturale persiste (vedi qui ad esempio «Acquitrini») la grafia resta come immersa nel fondo assorto e serve a scandire articolazioni di questo vedere elementare, introducendo, comunque, in questa scansione una dimensione autonoma che è già un puro ritmo visivo. Ma Alfieri riesce d'un tratto a liberarsi dalla tirannia del suo proprio sentire perché, come delle agili ballerine che entrino di soppiatto in scena, nel mezzo di un'opera, per eseguire un passo di danza, ora alla sua fantasia creatrice si impongono dei geroglifici, delle strutture insolite, un guizzare di segni veloci dagli impensati scatti lirici, tutto un impennarsi di segni neri che si aggrovigliano e si snodano, si raggomitolano di nuovo, per finire col risolversi talvolta in qualche linea tesa e decisiva. Ogni ricordo figurale sembra qui esaurito, eppure nel piglio d'una curva, nelle forme di un simbolo, nell'insistenza di un tratto nero che fa quasi macchia, pare di udire riecheggiare ancora i fremiti di quegli attimi pieni ed assorti che hanno offerto ad Alfieri uno spazio iniziale di poesia. In realtà, questi simboli e geroglifici inventati costituiscono dei personaggi singolari che si librano in una più libera e serena disposizione a vivere una vita immaginaria. Si pensa alle sue forme come ad un'aggiunta, ad un arricchimento di personaggi liberi ed estrosi, nel panorama ideale che vive nella nostra memoria. Quello che importa è che Alfieri insista su di essi, che non perda animo di fronte alla solitudine altiera ove essi paiono condurci. Questa solitudine, in realtà, è folta di volti, di cielo e di terra, cui questi puri personaggi creano inesauribili contrappunti. I disegni di Alfieri ci paiono il preludio di quella piena maturità creativa del pittore, che ora improvvisamente emerge davanti a noi come delle lenti stalattiti che d'un colpo brillano nelle grotte marine. Anche a non volerla vedere, non si può non scorgerne il rovescio, cioè le zone di libertà inventiva ch'egli ha saputo istituire nel suo lavoro. E questa sua capacità di apparirci imprevedibile e carico d'avvenire avventuroso costituisce una testimonianza concreta della inquieta vitalità di questa sua fertile stagione, che ben si attaglia al tempo nostro.