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Armando Ginesi in Attilio Alfieri, Le due anime dell'enigma, catalogo, Bora, Bologna, 1989

Questa mostra si doveva fare. Personalmente me l'auguravo da molto tempo e nella monografia intitolata «Alfieri», pubblicata da «Arte Nuova Oggi» nel 1977, concludevo così il mio testo: «...sarebbe bene che la sua regione o magari, anche meglio, la sua provincia, gli dedicasse una mostra omaggio allestendo una rassegna antologica di quelle opere che - come scriveva Raffaello Giolli nel 1942 - "tra le poche dei migliori artisti d'oggi, per quella presenza attiva di linguaggio interiore, saranno indicative per l'indagine dello storico di un domani e rivendicheranno, all'artista buono-sfortunato, il merito notevole o modesto di aver contribuito anch'egli al rinnovamento dell'arte italiana"». A dodici anni di distanza l'auspicio è stato raccolto, e la città di Loreto - vale a dire la città dove è nato nel 1904 - dedica ad Attilio Alfieri una mostra antologica che raccoglie opere eseguite in quasi quarant'anni di attività. Mi piace, da marchigiano, constatare come, in questa occasione, la nostra terra abbia saputo dare di sé una bella immagine smentendo l'attitudine - che sembra essere tipica di ogni paese ? a non riconoscere il valore dei propri figli (ricordiamo il Vangelo di Matteo: « Un profeta non è privo di onore se non nella sua patria e nella sua casa»; o quello di Marco: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, fra i suoi parenti e nella sua casa»; e ricordiamo anche il grande recanatese: «natio borgo selvaggio... che m'odia e fugge»). Loreto ha: invece voluto onorare il figlio lontano, quell'ex ragazzo che un giorno del 1923, stanco di spingere con una mano il carretto da fruttivendolo del padre e con l'altra di sostenere un libro, aveva preso la decisione di emigrare verso la mitica Milano come «un passero tentennante in cerca di becchime», ci ricorda lui stesso. Sono intercorsi sempre buoni rapporti tra Alfieri e la sua città? Certamente no. In tanti anni qualche incomprensione s'è avuta, da una parte e dall'altra. A Loreto molti, ricordandosi di quel ragazzo piccolo, smunto ed irrequieto, figlio di genitori analfabeti e di un padre gran bestemmiatore (come ebbe a definirlo il Vescovo rifiutando al ragazzo il «placet» che avrebbe potuto farlo studiare presso il Seminario di Recanati), stentavano a credere ch'egli avesse potuto diventare "artista", cioè un personaggio importante che realizza opere importanti. Crome, quello scavezzacollo senz'arte né parte, che aveva tentato mille mestieri (fruttivendolo come il padre, poi bettoliere, e poi facchino e ancora verniciatore e imbianchino-decoratore) e che se n'era dovuto andare verso la grande città proprio perché incapace di radicarsi in quella sua, adesso era diventato un pittore, di quelli che dipingono quadri per i musei? Ma non era possibile, via! Si trattava certamente di chiacchiere, di esagerazioni messe in giro da qualche buontempone o magari dallo stesso interessato per chissà quale gusto di rivalsa nei confronti dei paesani. Alcuni pensavano questo a Loreto. Alfieri lo ha saputo, qualche volta lo ha sentito con i propri orecchi e ci ha sofferto, anche molto. Però non ha mai smesso di voler bene alla sua terra, alle sue colline dolci, ai terreni pettinati che sovrastano le vallate del Musone e del Potenza. Così come non ha mai smesso di essere e di sentirsi marchigiano e lauretano. Dall'altra parte anche i cittadini di Loreto, col trascorrere degli anni, hanno incominciato ad interessarsi sempre di più di questo loro «strano» figlio lontano, ad apprendere con piacere le notizie delle sue mostre, dei libri che gli studiosi scrivevano su di lui e quindi ad andare fieri di essergli conterranei. Così l'inevitabile rapporto di amore e di avversione che sempre si instaura tra una città (soprattutto quand'è di provincia) e i propri figli illustri è andato modificandosi, con l'attenuazione delle ragioni del dissenso e la crescita di quelle affettive e di stima. Infine Loreto ha deciso di dedicargli oggi una mostra antologica che segue di otto anni quella organizzata dal Comune di Milano (la sua città adottiva) nelle sale di Palazzo Reale. Ho scritto all'inizio che questa mostra si doveva fare. Certo per le ragioni che ho esposto, vale a dire per un dovere di riconoscenza e di tributo che la città marchigiana deve ad un concittadino celebre. Ma accanto a queste motivazioni che assumono un valore per così dire etico e che attengono al problema del rapporto tra l'artista e la città, altre ve ne sono di ordine più generale le quali coinvolgono aspetti più ampi, di natura culturale. Una mostra così andava fatta per consentire, alla critica ed al pubblico, di ripensare il fenomeno Alfieri, di riflettere sulla sua singolarità e di tentare di darne in qualche modo una spiegazione scientifica. Esiste su questo artista una ricca letteratura che copre circa un sessantennio a partire dai primi scritti di Edoardo Persico fino ai nostri giorni. Le firme che si sono occupate di lui sono tantissime ed autorevoli (dal già citato Persico a Raffaello Giolli, Carlo Carrà, Michel Valadon, Marcello Venturoli, Raffaele Carrieri, Giorgio Kaisserlian, Franco Russoli, Mario De Micheli, Joseph Kasper, Giuseppe Appella, Luigi Lambertini, Carlo Munari, Raffaele De Grada, Luigi Carluccio, Marziano Bernardi, Angelo Dragone, Miklos Varga, Pedro Fiori, Marco Valsecchi, Alberico Sala, Giuseppe Marchiori, Domenico Cara, Giulio Carlo Argan, Flaminio Gualdoni, Renato Barilli ed altri). Tutte indistintamente hanno messo in evidenza l'aspetto peculiare di Alfieri, ciò che lo rende singolare e che lo fa essere, in qualche modo, un «enigma» nel panorama artistico di questo secolo: la convivenza in lui di due anime che costantemente dialettizzano all'interno di sé, senza che l'una prevalga sull'altra, onesta la prima quanto la seconda, capaci entrambi di produrre risultati di qualità. Due anime che in tensione perenne tra di loro, determinano forse le cause da cui scaturisce quell'insolita e per molti versi inspiegabile attitudine che ha consentito ad Alfieri di prevenire (pre-sentire e pre-fare) alcune fra le più significative espressioni artistiche del XX secolo. A parlare per primo di questa duplicità di Alfieri fu Edoardo Persico, il grande critico direttore della rivista "Casabella". E non poteva essere altrimenti vista la profonda amicizia che si era creata fra i due, lo studioso napoletano, di appena quattro anni più anziano, e il pittore marchigiano. In una lettera del 1933 inviatagli nelle Marche dove Alfieri si era recato per qualche tempo, ringraziandolo anche a nome di Pagano, Terragni e Giolli per aver loro dedicato alla prima «Triennale delle Arti decorative» cinque «saggi affettivi», cioè cinque pannelli disegnati, definiti dall'autore un omaggio simbolico al bianco-nero di Persico, quest'ultimo, dopo avergli trasmesso i complimenti anche di Prampolini, Fontana, Soldati ed altri, così gli scrive: «Non comprendo come in te possano sussistere due nature che agiscono contemporaneamente per una scambievole alienazione, dopo essersi filtrate con il setaccio-rovello i propri umori e il veleno di questi tempi apostata»; e più oltre lo esorta interrogandolo: «Rifletti su la tua duplice natura?». Infine quasi lo rimprovera per il suo atteggiamento contraddittorio perché, scrive, «in contraddizione con la tua arte istintiva, che sgorga dal tuo nucleo emozionale, mi dici che non comprendi più i grandi innovatori d'oltralpe d'oggi e preferisci quella certa pittura che non è entro di te» e conclude: «Credimi, caro Alfieri, non mi riesce di districare la tua voluminosa matassa di uomo e di artista in codesta tua turbinosa e confusa stagione. Ma penso a farlo in avvenire...» (tre anni dopo Edoardo Persico moriva e il suo proposito di districare la «matassa Alfieri» rimaneva inattuato). A me pare che da questa lettera del critico scomparso si possano desumere i punti qualificanti dell'avventura espressiva del pittore marchigiano e quella curiosa peculiarità che mi ha indotto a definirlo «enigma»: la doppia natura dalla quale deriva un atteggiamento contraddittorio e quindi, in definitiva, un complessità apparentemente inestricabile. Dopo Persico molti atri autori hanno riconosciuto la validità di questa tesi della «doppia anima» di Alfieri. Tra gli altri Renato Barilli il quale, in un testo del 1978 che viene riproposto in questo catalogo, giustamente rileva che sarebbe uno sforzo improduttivo ed errato il tentare «di cogliere in lui una vera natura, una sostanza unica, rispetto alla quale le altre sue incarnazioni sarebbero solo apparenze o schermi provvisori» . Ed esorta «ad accettarlo per quello che è, cioè appunto per il suo mimetismo, per il suo cangiantismo mobile, che del resto ne fa un caso molto raro e infrequente». Un caso singolare, come appunto dicevo all'inizio, e un enigma. Quali sono le due "anime" o "nature" di Attilio Alfieri? La prima è quella che costituita dall'attaccamento alla pittura-pittura (sempre per dirla con Barilli), al quadro da cavalletto relazionato sia al suo passato di artigiano che ha sperimentato, sin dalla più giovane età, varie tecniche (dalla calce alle sabbie, ai pigmenti, agli oli e alle essenze), sia ai grandi modelli del passato. Nei dipinti di questo tipo, infatti, vien fuori una solida premessa post-impressionista derivata dalla lezione di Cézanne per quanto riguarda la costruzione delle forme col colore ma anche per quanto attiene al bisogno di analisi, quindi di scomposizione prospettica, degli elementi di natura; ma anche, in taluni casi, è pure debitrice dei suggerimenti di una certa poetica degli interni di fine Ottocento/inizi Novecento (Bonnard, per esempio, e più ancora Veuillard); infine risulta relazionata anche ai dettati del Cubismo, in particolare di quello di derivazione cézanniana, con le solidità proto-cubiste alla Picasso e alla Braque rispettivamente delle fasi di Horta da Ebro e dell'Estaque. Su questo ceppo, per così dire «storico», Alfieri innesta poi i contributi delle linee di ricerca a lui contemporanee, da qualche rara suggestione novecentista, ad esiti chiaristi e di paesaggismo lombardo, ad influenze della «Scuola Romana» o, più propriamente, della «Scuola di Via Cavour». Dietro questa anima tradizionale del pittore Alfieri vive una delle sue nature di uomo, quella prodotta dalla sua etnia di origine, marchigiana, equilibrata, figlia di un'antica cultura contadina la quale, in una terra benedetta da Dio, producendo un'economia di benessere piuttosto diffuso, aggancia alle certezze, alle cautele, al rispetto dei valori saldi della tradizione. L'altra faccia della medaglia dell'uomo e dell'artista è invece contrassegnata da quella che, sempre Persico nella lettera già citata, chiama «incostanza» e «inquietudine» dicendo: «il tuo operare inquietante... inquieta anche me». In un altro testo parla poi del suo «impeto savonaroliano» e lo definisce «uomo non facile». Questa incostanza, questa inquietudine di fondo che si traducono in contraddizione (non si dimentichi che la contraddizione è il sale della vita; inoltre, concepita come possibilità di essere e di non essere, di non essere più e di non essere ancora, rappresenta la dimensione tipica dell'arte vista come sconfinato oceano delle possibilità pure) caratterizzano dunque la seconda natura di Attilio Alfieri, quella che di più contribuisce, saldandosi intimamente alla prima, a determinare la sua singolarità e la sua condizione enigmatica. Essa consiste nell'invenzione pura e affonda le radici in un humus inesplorato e, forse, inesplorabile, al quale è difficile, per non dire impossibile, applicare i criteri dell'indagine logica; è del tutto istintiva e, per citare ancora Persico, «sgorga dal nucleo emozionale» di Alfieri. Quella ricca letteratura di cui parlavo all'inizio di questo scritto potrebbe essere abbondantemente citata a sostegno della singolarità dell'artista che quasi tutti individuano nella sua capacità di precorrere i tempi anticipando, a volte di decenni, soluzioni espressive destinate a diventare punti di riferimento preciso e importante nello sviluppo dell'arte internazionale. In altri termini, tra un quadro da cavalletto e l'altro (tutti egregiamente risolti sul piano qualitativo) Alfieri improvvisamente vede spalancarsi dinanzi agli occhi fisici ed a quelli della mente, squarci di intuizione dove sarabande di segni, forme e colori vanno a comporsi secondo regole sregolate (che esempio sublime di contraddizione!) dando vita a risultati espressivi simili a codici linguistici di là da venire, i quali andranno poi ad assumere denominazioni famose come «Corrente», «Informale materico», «Informale segnico», «Informale gestuale», «Pop-art», «Mec¬-art», «Optical-art» e così via. Sicché diversi suoi lavori pittorici e grafici, eseguiti tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Quaranta, richiamano con evidenza le soluzioni successivamente teorizzate e proposte da Cassinari, Morlotti, Birolli, Vedova, Mathieu, Wols, Hartung, Stahly, Pollock, De Kooning, Kline, Rauschenberg, Pignon, Schneider Fontana, Burri, Massari; Soto, Agam, Vasarely ed altri. Che cosa vuol dire tutto questo? Che Attilio Alfieri può essere considerato il «padre» di alcune fra le più significative linee di tendenza dell'arte italiana e mondiale a cavallo della seconda grande guerra? Nessuno lo ha mai detto, nessuno lo dice e lo stesso Alfieri, con la modestia che lo contraddistingue, non ha mai preteso che lo si sostenesse. C'è un punto del suo «Racconto di una esperienza» (appunti dal 1964 al 1978) in cui - parlando delle sue opere «cartellonistiche» degli anni Trenta, quelle, per intenderci, che hanno tanti punti in comune con le successive soluzioni linguistiche della pop-art - scrive: «Confesso candidamente che allora io non ero un teorico delle strutture. Ma intuitivamente sentivo il fascino dell'essenzialità». Alfieri dunque non si assume paternità consapevoli ed è giusto non attribuirgliene. Lo stesso Persico, nella famosa lettera del '33, riferendosi sempre ai cinque saggi affettivi dedicati a lui, Terragni, Pagano, Giolli e «Casabella» e che l'autore aveva definito «pochezza», scrive: «Perché pochezza? Io vedo tutt'altra cosa: propongono tematiche diverse tese verso non soltanto le strutture archetipo ma, ciò che più conta, verso i problemi umani psicologici; e che fortunatamente altri spiriti nuovi come te hanno cercato di riproporre come indicazioni urgenti! E che forse tra dieci, venti anni al massimo ciò che tu giudichi "pochezza"... non definisca anche questa tua "pochezza" come l'apporto per un nuovo linguaggio estetico? Chi ne sarà poi il padre?! Scherzi a parte. Nessuno è padre, eccetto Dio...». Con l'acume che gli era proprio Edoardo Persico aveva intuito che le opere che Alfieri definiva «pochezza» erano invece segni anticipatori importanti dì un nuovo linguaggio estetico di cui altri sarebbero stati i padri. Ma poi, sdrammatizzando il problema della «paternità», finiva coll'affermare che di padri in fondo non ne esistono perché padre vero può essere solo Dio. Del resto nessun precursore è mai padre consapevole, dal momento ch'egli non si preoccupa di svolgere e si limita ad accennare. E' l'intuito che lo rende precursore e non la consapevolezza, valore che appartiene ad altri, alle guide, cioè a coloro che, venendo dopo, usano lo sterro da lui realizzato per costruirsi strade sopra le quali si incamminano puntando verso mete precise. Di ciò Alfieri è convinto ed infatti ha scritto nei suoi appunti già citati: «Non percorsi intenzionalmente nessuna strada al limite. Non ne ho mai dissodato una: l'insofferenza a programmi e lanci di Manifesti, la timidezza, non me l'hanno mai permesso». Il temperamento di Alfieri, quella seconda natura fatta di irrequietezza, di vivace mobilità, di impeto savonaroliano, di anarchismo latente, diametralmente opposta alla prima, prevale nei momenti intuitivi e, liberandosi dal magma ribollente dell'inconscio, gli consente, come fosse uno sciamano, di prevedere i segni di ciò che sarà, senza impadronirsi delle ragioni per cui accade. E' questo il caso in cui l'artista si fa mago e l'arte profezia. Alfieri artista, dunque, è l'uno o l'altro? Della sua produzione pittorica va redatta una graduatoria di valori nella quale un tipo di espressione si colloca al primo posto e l'altro tipo invece all'ultimo? Assolutamente no. Attilio Alfieri è 1'uno e l'altro polo: è minuto ma saldo; è modesto ma intimamente convinto di valere; è schivo, ritroso e meditativo come un marchigiano, ma è veloce, alacre e scattante come un milanese; è amaro e ironico; è duro e dolce; è alfa e omega: in questa polarità realizza la sua esistenza e dipana la sua intelligenza. Come artista - ha ragione Barilli - Alfieri va preso per quello che è, cioè padrone di due anime apparentemente dicotomiche ma che in lui sanno convivere, confrontarsi, finanche scontrarsi, dando vita (come gli atomi di Democrito quando si urtano) alla sua formidabile capacità creativa. Alfieri artista è ciò che è in quanto mimetico e cangiante, in quanto caso singolare ed enigmatico. Per questa ragione la mostra è stata ideata e realizzata nel pieno rispetto della sua peculiarità di uomo e di artista. Essa vuol presentarlo per quello che è, una specie di Giano bifronte che, non si dimentichi, nel «Carmen Saliare» era nominato con le qualifiche di «buon creatore» e di «dio degli dei», non identificabile con alcuna divinità greca e perciò apparso enigmatico anche ai più antichi eruditi. Al pari di Giano, Alfieri è bifronte, ambiguo e dunque non decodificabile. Estraneo ai ferrei schemi logici dell'aut-aut assume in sé le contraddizioni, media le dicotomie e sceglie la dimensione più libera e fantastica dell'et-et. Come Giano presiedeva ai «passaggi» ed era presente ad ogni specie di «inizio», così Alfieri suggerisce intuitivamente segni, forme e colori potenziali che altri poi tradurranno in atto, facendone dei sistemi linguistici organizzati e significanti. La mostra pertanto non si articola per temi o per momenti stilistici, ma si organizza cronologicamente presentando, di ogni periodo, la produzione alfieriana nel suo complesso, vale a dire visualizzando quell'esistenza delle due anime di cui si è ampiamente detto, a dimostrazione palese dell'accentuata e costante polarità dell'artista. Il quale, pur nella sregolatezza e nella contraddizione, una regola e una logica comunque le possiede e le riassume nella costanza sistematica con la quale le due anime convivono e si manifestano nella produzione creativa di tutta la sua vita. La sezione della grafica costituisce poi un po' una novità, nel senso che prova come anche negli elaborati grafici si ripeta la singolarità che tipicizza Alfieri pittore. Inoltre essa sposta indietro la datazione delle "pre visioni"che, in ambito pittorico, partivano dal 1930 con diverse opere di natura optical ante-litteram. La rassegna presenta infatti, tra gli altri, due disegni, «Il nido» del 1920 (che venne esposto ad Ancona nel 1923) e "Geroglifici", del 1925, nei quali le anticipazioni del sistema linguistico segnico-gestuale (quasi un dripping pollockiano) risultano sconcertanti. Intendimento del curatore è stato poi quello di dotare tutte le opere esposte di un apparato didattico a mezzo di minischede in cui sono riassunti i caratteri stilistici, sottolineate le ascendenze storiche e le influenze coeve, evidenziati gli eventuali caratteri precursori. Il lavoro di schedatura è stato redatto dalla prof.ssa Loretta Fabrizi alla quale va il mio apprezzamento ed il ringraziamento più sentito. Per concludere: l'antologica di cui la città di Loreto si è fatta intelligentemente carico sottolineando la complessità di Attilio Alfieri sintetizzata nella messa in luce delle due nature conviventi, vuole costituire stimolo alla critica italiana e straniera affinché superi la soglia cui fino oggi è pervenuta riconoscendone la singolarità (Flaminio Gualdoni lo ha definito «uno dei casi più eterodossi e ricchi di suggestioni dell'intera vicenda culturale italiana») e dia inizio ad uno scandaglio sistematico e scientifico che arrivi a fare completamente luce (per quanto è possibile) sulla sua dimensione enigmatica, sbrogliando insomma quella «voluminosa matassa» di cui ha parlato Persico nel '33 e che a tutt'oggi risulta ancora estremamente intricata.