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R. Toselli lettera ad Alfieri, presentazione in catalogo della mostra personale alla Galleria Barbaroux, Milano 1943

Nella saletta della Galleria Barbaroux, accanto ad una collettiva dei Maestri del '900, espone il giovane Alfieri con un gruppo di opere scelte degli anni 1940-43. (Eccetto un paio, come l'originale manifesto della 7a Mostra Internazionale del Cinema al "Lido di Venezia" 1939), l'ispirazione di queste ha origine in quei frantumi di oggetti raccolti in strada: "isolatori elettrici", "foglie secche" e "cocci", il cui abbandono di essi è tristezza congeniale alla sua indole. Diverse invece, per ispirazioni e impasto materico, sono quelle N. M. "cipolline", "ravanelli" ed altre, per la vivacità coloristica immediata, che ha avuto felice esito al "Premio Verona" l'anno scorso, con l'assegnazione di due premi. Opere distinte tra loro, che testimoniano le sue esperienze attuali, diverse da quelle considerate "precorrente" come già aveva ben previsto il genio di Edoardo Persico, definite "anticipazioni". Mi riferisco a quelle opere degli anni 1931-35 che si inseriscono per se stesse nella vicenda "precorrente" in evidente rottura con il "Novecento" cui fecero parte viva: Sassu, Birolli, Tomea, Breveglieri, Pittino, Fumagalli, Motti e qualche altro. Le abbiamo tuttora presenti per l'interesse suscitato in: Mio padre, Il portinaio di via Solferino n. 11, il Macinino, la Fornace, le Casupole, le quali, in un senso, pur vago, influenzarono i più giovani: Badodi, Filippini, Cassinari, Morlotti e Carlo Martini, allora studenti dell'Accademia. Oggi liberati da influenze nostrane, (tutti ne subirono da Cimabue a Sironi) volti verso fonti d'oltralpe, sono meritatamente affermati ognuno con la propria personalità. L'attuale produzione di Alfieri è ben distinta dalla precedente, ed è, per me, titolo di soddisfazione. Poiché dalla "collettiva del 1939" insieme al Grossi, Viviani, Quarti, alla "Galleria Genova" dove io ebbi il piacere di presentarlo, il percorso dell'Alfieri è stato più rapido del previsto ottenendo l'unanime consenso della critica per le sue attuali ricerche, che vanno delineandosi e imponendosi tra i più giovani di lui e ben più prestanti, alla ribalta! I quali, se non altro, devono, a spese del suo diuturno faticoso operare pur a lunghe scadenze di tempo, non solo l'esempio morale come testimoniano le sue menzionate "anticipazioni" esposte al "Circolo Filologico 1934", che hanno pur contribuito insieme a Soldati, Fontana, Sassu, Birolli, ecc. a formare e forgiare l'attuale ambiente culturale, la cui fucina era, ed è, la "Galleria del Milione" animata da Persico, che prese a cuore particolarmente il caso uomo e artista Alfieri. Sebbene il Persico si sentisse più idealmente ed intellettualmente attratto verso altri giovani, il suo giudizio tuttavia in merito all'arte di Alfieri per quanto non determinante, è peraltro una affermazione delle sue capacità intuitive e introduttive, volte ad un nuovo approdare artistico in opposizione al "Novecento" imperante, che il Persico riteneva scaduto, pericoloso per la nuova stagione che andava fiorendo in virtù del suo geniale impulso. Ho detto che il Persico prese particolarmente a cuore, direi meglio, con il suo spirito di "praticante cattolico", il caso "oggetto-soggetto-Alfieri"; essendo, contrariamente ad altri pur valenti giovani, un "mistico", un "umile". Una pecora sì sparuta ma ribelle, fuori dal suo ovile, e che il Persico, tentava farla rientrare, accodare al grande gregge!... Ma fu cosa difficile, per quel suo "scantonare", urtare ad ogni incontro. L'incuranza, l'insofferenza stessa di corteggiare amatori d'arte, critici, mercanti non per orgoglio ma per quella dignità, condizionandolo così in arte, a quel ruolo di "cenerentolo" come egli si definiva in conformità al conseguente lavoraccio di imbianchino, che lo debilitava e lo rendeva un "selvatico". Ragione questa per cui, il Persico rimandava di occuparsi di lui come artista, cercando invece catechizzarlo in ben altro: attendendo il miracolo in "quella rivelazione cattolica" che, in Alfieri mai avvenne, se pure profondamente sanamente cristiano, né perseguiva l'angosciosa verità attraverso ai tanti cristianesimi, passando così da una abiura all'altra, in quegli anni di fervore religioso: egli frequentava chiese e culti diversi, per abbandonarli poi abbracciando infine Confucio a braccetto con un Quacquero! A tutti è noto quanto il Persico, fosse un fervente praticante cattolico, al punto di indurre amici cari e duri quanto il Garrone, alla conversione. Alfieri, essendo il solo in quell'inferno di via Solferino non considerato un "duro" per la sua mitezza, pensava il Persico cosa agevole ricondurlo in Chiesa a pregare Gesù, con lo stesso fervore di fanciullo, quando pregava Domenico Savio nella sua Loreto. Non ci riuscì, per quanto le sue prediche passionali, lo intenerivano e irretivano dialetticamente, Alfieri opponeva una "savonaroliana resistenza" a quella mordace "dialettica del Persico", perché più animatamente informato sulle origini delle religioni. Ad ogni incontro casuale, quando il Persico usciva dagli altri studi di via Solferino, ormai storica, non poteva non azzuffarsi amichevolmente. Io ricordo, una sera il Persico si arrese sconcertato e biblioso, in merito alla discussione sulla "Trinità Cristiana" sostenuta dall'Alfieri che: la Trinità: il "triangolo" il cui "vertice" è lo "Spirito", di per sé Santo; e, che questa era, già stata inventata da altre religioni animistiche che risalivano parecchi secoli prima della Cristiana, ma che, almeno gli Egiziani, l'avevano già elevata a tutt'altro simbolo edificante! Troncava così la inquietante diatriba chiedendogli, se, il suo Mondrian, con i "tassellini" di colore ben giustapposti sarebbe riuscito a dipingere quei Gesù... che egli pregava, senza alterarne o arrestarne del tutto il mistero della sua Transustanziazione?Penso proprio che, tali contrasti, furono la causa prima, del dissentire artistico verso l'Alfieri, facendo forse riaffiorare in Persico, l'amarezza a tutti nota provata per lo stesso motivo verso il suo grande e sfortunato Garrone.Ma la ragione determinante fu la scomparsa prematura di lui. Un grandissimo ingegno il quale era legato al destino della storia dell'arte moderna: sentiva di dover tanto e fare tanto. Senz'altro avrebbe anche portato a compimento il profilo dell'Alfieri. Appena intuibile il contenuto in una lettera inviatagli nelle Marche, ove si distendeva dopo le sgobbate notturne per la messa in opera della prima "Triennale". Il contenuto di questa, già a conoscenza di alcuni amici comuni: Del Bo, Gialli e il prof. Cento dell'Accademia Libera, è molto significativo e commovente, i quali, dopo la morte del Persico, alla richiesta della Mazzucchelli che intendeva raccogliere tutto il materiale inedito per una pubblicazione, consigliarono ad Alfieri di non renderla pubblica per il momento poiché, l'ovvio contenuto polemico che sviliva con termini: "parrucconi della nuova Arcadia", ecc. ecc., quelle personalità cui l'Alfieri, ricambiava oltre la stima e la gratitudine, sarebbe stato inopportuno. Questa lettera, che ora rendiamo pubblica, caratterizza l'umanità complessa dell'Alfieri: mistico-sensuale, empirico-razionale componente quella sua personalità repressa fin dall'infanzia, costruita coi materiali della nostra realtà quotidiana, esposta a tutti i colpi imprevedibili della sorte, logorata da un'attività, tutt'altro che artistica intellettuale, precludendogli così, quel suo itinerario spirituale a cui tanto aspirava. Non ho altro da aggiungere che richiamare la compiacente attenzione di coloro che sanno scorgere attraverso le sue vicissitudini, l'uomo e la sua arte. Lascio, ripeto, a chi più di me ha vissuto con lui e con altri colleghi, gli anni più avventurosi della vicenda dell'arte moderna all'insegna della galleria "il Milione".