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Elena Pontiggia presentazione in catalogo della Mostra del Centenario, Mole Vanvitelliana, Ancona 2004

Attilio Alfieri: l'inquietudine, l'umanità Singolare figura, quella di Attilio Alfieri. Sfogliando distrattamente il catalogo delle sue opere può sembrare di aver davanti non un artista, ma una collettiva: una serie di voci che toccano di volta in volta, spesso con strana precocità, la figurazione primitivistica, l'astrattismo, l'es-pressionismo, il realismo, l'informale? La miglior parte della critica che si è occupata di Alfieri, del resto, ha sempre sottolineato il suo stile volubile, l'ansia incontentabile che lo portava prima a sperimentare tanti linguaggi diversi e poi ad abbandonarli per seguire nuove ricerche, per tentare nuove forme. Eppure un comun denominatore nell'opera di Alfieri c'è. È un comun denominatore che non si trova nello stile, ma nel sentimento che lo anima. Si avverte in Alfieri un profondo senso di pietà per l'uomo, la sua solitudine, la fatica di vivere: una fatica che aveva conosciuto bene negli anni di aspra povertà di via Solferino, ai tempi della sua bohème milanese, quando non aveva neanche i soldi per pagare la corrente elettrica e alla sera, lo ricorda Carrieri, doveva accontentarsi di un mozzicone di candela per avere un po' di luce. La serie di figure pensose, stanche, che dipinge nei primi anni Trenta, e che piacquero a un critico esigente come Persico, testimoniano un sentimento doloroso della quotidianità e del destino dell'uomo, quasi un precoce esistenzialismo. Ma lo stesso sentimento aleggia anche nelle nature morte dimesse e sconvolte realizzate fin dal 1932, in anticipo sull'espressionismo di "Corrente"; nel ciclo dei bombardamenti e delle macerie dipinto in tempo di guerra; nelle figure desolate, protagoniste del realismo degli anni Quaranta e Cinquanta. Certo, parallela a queste figure drammatiche si snoda nel suo percorso una pittura astratta apparentemente serena e senza gridi. (Per non parlare della brillante attività grafica e cartellonistica dell'artista: capitolo fondamentale della sua ricerca, ma ovviamente vincolato nei temi agli eventi ? le fiere, le manifestazioni espositive ¬? da illustrare e promuovere). Eppure anche una parte rilevante dell'arte non figurativa di Alfieri è ispirata da motivazioni psicologiche ed esistenziali. I suoi Omaggi, quei grumi e quei grovigli di segni (senza precedenti nell'ambiente artistico dell'epoca, nem-meno in quello astratto che gravitava a Milano intorno alla Galleria del Milione) che vengono esposti da Persico alla Triennale del 1933, sono in realtà, come aveva notato lo stesso Persico, "strutture della coscienza", "sposate a problemi umani psicologici" (v. Antologia 2).1 L'ansietà dei segni, insomma, esprime un'ansietà dell'animo. Non a caso anche in molti disegni e in molti successivi dipinti "informali" troviamo riferimenti all'inconscio, ai meandri della psiche, al tempo soggettivo di Bergson, al tormento interiore di Kafka, fino a giungere a opere tarde dai titoli eloquenti come Tavole Rorschach. Angoscia o Apocalissi (1965). Quello che a prima vista può sembrare un facile sperimentalismo porta con sé una commossa, per quanto introversa, cognizione del dolore. È dunque in questa inces-sante inquietudine esistenziale che si può cogliere la coerenza della ricerca metamorfica di Alfieri. L'inquietudine dello stile, allora, non ne è che il riflesso. Gli esordi. I tempi di via Solferino e l'amicizia con Persico Nel 1928 Attilio Alfieri dipinge Mio cugino, una delle sue prime opere. È già un lavoro maturo, nonostante qualche acerbità nel colore, e preannuncia alcune caratteristiche della sua ricerca successiva: l'intensità dello sguardo, insieme mobile e concentrato, del ragazzo contrasta infatti con la sua posa inerte, quasi inadatta ad agire, trasformando il ritratto in un'indagine psicologica. Alfieri ha, all'epoca, ventiquattro anni. Ha alle spalle, oltre a brevi studi irregolari, una lunga esperienza artigianale, avendo lavorato fino al 1923 con il padre e il fratello come imbiancatore e decoratore. Questa familiarità con colle, polveri e vernici, tra l'altro, fornirà più di un suggerimento alla sua inquieta sperimentazione, acuendo una sensibilità materica che riaffiorerà in vari periodi nella sua ricerca. Lui stesso ricorda di aver dipinto sin da ragazzo "paesaggi coi colori in polvere impastati alla colla" (Antologia 1). I suoi primi contatti con l'arte, comunque, sono quelli che gli offre la terra marchigiana, dal Lotto al Crivelli. A Loreto, dove è nato, ha poi modo di vedere nella Basilica della Santa Casa non solo Melozzo e Signorelli, ma anche miriadi di ex-voto, che lo portano a riflettere sulla dimensione popolaresca, non accademica, della pittura.2 Nel 1923, a diciannove anni, lascia il paese natale e si trasferisce prima a Piacenza, poi a Milano. Qui, pur continuando a mantenersi col suo mestiere di artigiano, perfeziona le conoscenze artistiche, frequentando la Scuola d'Arte del Castello Sforzesco fino al 1927. Al termine di questi studi, però, dopo aver raggranellato con feroci economie una minima somma di denaro, abbandona per circa due anni la città, andando a dipingere fianco a fianco in Brianza con un modesto pittore di paesaggi, Giovanni da Busnago. Quando torna a Milano, intorno al 1930, va ad abitare in via Solferino 11, una sorta di Bateau Lavoir o di Ruche meneghina, dove un tempo aveva vissuto Tranquillo Cremona e dove in quel periodo avevano lo studio Del Bon, Birolli, Lilloni, Spilimbergo, Andreoni. Sono tutti artisti, questi, seguiti da Edoardo Persico, il critico napoletano giunto anche lui a Milano in quel periodo, alla fine del 1929. Alfieri si trova così quasi naturalmente a far parte della sua cerchia. Proprio Persico descrive suggestivamente lo strano edificio, più proletario che bohémien: "Via Solferino numero 11: una casa borghese che trasuda agiatezza e onorabilità. [?]Ma, lassù in soffitta, lo spettacolo è diverso: un corridoio buio, che non finisce mai, con tanti usci a destra e a sinistra, e camerette sparse qua e là per i terrazzi che si affacciano sui cortili. I pittori hanno chiamato questo luogo ?la città degli studi'. [?]Ve n'è qualcuno così misero, che è ospitato a turno dagli amici e fornito di colori e di modello; ma nessuno ha i capelli lunghi o la cravatta a fiocco. Ve ne sono parecchi che lottano tra fame e stenti, ma tutti evitano le fogge mascherate. Nei ripieghi della loro miseria c'è sempre un'austerità consapevole." E così continua: "In realtà, si tratta di gente che non conosce consolazioni, e per cui la durezza della vita non è attenuata da maneggi di gruppo, o dai complotti di caffè. Tutti ?operai qualificati': da Angelo Del Bon a quegli che dipinge per il mercante di ?Navigli', da Adriano Spilimbergo al futurista che disegna cartelloni, da Renato Birolli a chi ha lasciato ieri l'Accademia e tenta qui i primi passi".3 Sentiamo ora un'altra descrizione, questa volta di Carrieri, di quella "casa d'artisti": "Uno degli abitatori più timidi e scontrosi dei tetti alti di via Solferino era Attilio Alfieri, marchigiano di Loreto. Piccolo, olivastro, con gli occhi neri un po' impauriti, aderiva ai muretti con la prensilità di un gatto. Viveva di niente. La sera quando gli altri accendevano la luce con un giro di interruttore, Alfieri rimescolava le ultime gocce di cera intorno allo stoppino. Non l'ho sentito mai lamentarsi. Passava giorni e giorni a lavorare dietro la portina chiusa. I suoi dipinti glabri e verdastri gli assomigliavano. Erano patiti e credenti come lui. E dello stesso silenzio imbarazzante." (Antologia 8). Ma torniamo a Persico. Senza indugiare in analisi che ci porterebbero fuori strada, dobbiamo ricordare almeno qualche dato. Alla fine degli anni Venti, mentre il classicismo che aveva segnato il primo dopoguerra sembrava in parte aver esaurito la sua vitalità espressiva (nonostante i grandiosi sforzi di Sironi verso un'arte monumentale), Persico sosteneva una pittura moderna aperta all'impressionismo, al post-impressionismo e alla Scuola di Parigi: una pittura impostata sul colore e non sul disegno, sul tono e non sul chiaroscuro, sulla superficie e non sulla profondità prospettica, sulla spontaneità e non sul mestiere. Ma prendere a modello Manet e Cézanne, Utrillo e Rousseau, Matisse, Rouault e Chagall, non significava solo cambiare stile. Significava sostituire alla concezione classicista degli anni Venti, che riaffermava la centralità dell'uomo nella storia, una concezione neo-romantica, che riaffermava la dipendenza dell'uomo dall'infinito. Gli "omini" di Rosai, i santi maldestri di Garbari, le figure "ingenue" di Menzio e Birolli, per citare solo alcuni degli artisti amati da Persico, erano una metafora dell'uomo anti-eroico, carico di stupore. All'ideale classico del vir si sostituiva così l'ideale primitivistico del puer. La filosofia idealistica, del resto, lasciava il posto in Persico a una sorta di realismo aperto alla metafisica. L'arte, nella sua concezione, doveva superare la svalutazione idealista dell'esistenza, reimmergendosi nel fluire della vita (non a caso l'aggettivo "vivo", "vivente", riferito all'arte, ricorre continuamente nei suoi scritti), ma insieme doveva considerare la vita in un orizzonte trascendente. Da un lato, dunque, non bisognava più rappresentare la realtà sospendendo il tempo, come aveva fatto il "Novecento", ma accentuare la precarietà dell'attimo. Per questo Persico considerava l'impressionismo non una pittura dell'effimero, ma una pittura religiosa, capace di esprimere la finitezza dell'uomo. D'altro lato, però, bisognava illuminare l'attimo alla luce di un ordine superiore.4 A questa visione dell'uomo sostenuta da Persico la pittura di Alfieri risponde pienamente. La sua famiglia di figure, dal Portinaio di via Solferino 11 a Bruna, dalla Fanciulla pensosa alla Fanciulla che sogna, da Natascina fino al doppio ritratto di Ambiente strano e alla Bella italiana, è la metafora, anzi l'immagine di un'umanità sofferente, fragile, disagiata. Il portinaio che appoggia la testa sulla mano e guarda nel vuoto, con l'inutile catena d'oro matto che gli orna il gilet; la ragazza senza sorrisi, immobile sulla sedia; la Fanciulla dal corpo legnoso, incapace di grazia, e quella immersa in un sogno malinconico senza dolcezza, raccontano di un'infelicità che non trova sollievo. È un'infelicità filosofica, non solo psicologica: il segno di una inadeguatezza radicale, di una piccolezza, se non di una miseria, che riguardano tutti. Con le figure del Novecento Italiano, disegnate da Marussig o Funi, da Oppi o Sironi, le donne e gli uomini di Alfieri hanno in comune la pensosità. Appaiono però più imperfetti: al corpo rotondo e plastico del classicismo novecentista subentra in loro una rigidezza da marionetta, un'angolosità che tende ad annullare il volume. Eppure proprio la loro maldestra debolezza lascia trapelare una spiritualità profonda. Fragilità dell'uomo e spiritualità erano appunto i concetti cari a Persico. Non è un caso che il critico abbia scritto nel 1935, parlando di Alfieri: "Dai primi dipinti agli ultimi la sua personalità mi è apparsa singolarmente umana oltre che artistica. Tale necessità interna lo porta ad andare verso gli uomini e le cose con dedizione e amore religioso, forse unico fra i pittori che io bazzico in via Solferino" (Antologia 4). Nel 1933, del resto, Persico meditava di organizzare una mostra ad Alfieri presso la Galleria del Milione: una mostra cui l'artista, per un puro scrupolo dettatogli dalla sua lealtà (si era già impegnato precedentemente e non voleva mancare alla parola data) preferirà una personale molto meno prestigiosa al Circolo Filologico.5 È un primitivismo acerbo e doloroso, dunque, quello di Alfieri. Lo si vede anche nell'esito forse più complesso della sua galleria di ritratti: Ambiente strano, datato dall'artista 1934, ma in realtà da anticipare di un anno, perché ne parla Persico nella sua lettera del 1933 (Antologia 2). L'opera è una rimeditazione delle cosiddette Cortigiane del Carpaccio, un capolavoro che aveva già ispirato più di un artista, dal Marussig delle Donne al caffè e di Donna col cane al Pompeo Borra di Le amiche. Alfieri, presentandoci due giovani donne discinte, ci informa con discrezione che si trovano in una casa chiusa: sono anche loro cortigiane, come allora venivano interpretate le figure carpaccesche. Una di loro, però, tiene in mano un'edizione di lirici latini, con le opere di Orazio e di Ovidio. L'allusione al poeta del carpe diem e all'autore dell'Ars amandi si scontra con la dura realtà della loro condizione, e insieme sembra commentarla, evocando la fuggevolezza del tempo e i giochi d'amore. Soprattutto, però, l'inaspettata lettura classica insinua una nota di disorientato stupore nell'ambiente. Un Ambiente strano, appunto. Oltre alle figure, comunque, Alfieri dipinge in questi anni anche paesaggi, carichi di una sottile tensione. Le fornaci e la Casina rosa di Loreto, ad esempio, costruiti secondo la lezione di Cézanne, sono mosaici approssimativi, nati dall'accostamento di forme-colore appena sbozzate, che infondono nel tema architettonico una dimensione di instabilità. Ancora più allarmate sono le nature morte, di cui vediamo l'esito più alto nel Macinino, esposto alla mostra del Circolo Filologico del 1934. Qui gli oggetti sono forme guizzanti, nervose, che premono oltre i limiti del loro perimetro. La natura morta non è più una ricerca di equilibrio, come avveniva negli anni Venti, ma l'immagine e quasi la metafora di un'agitazione irrefrenabile. L'inquietudine sperimentale. Dalle prime prove astratte al matericismo L'indagine che finora abbiamo condotto non esaurisce il percorso espressivo di Alfieri. La sua pittura, anzi, in questo periodo procede su due binari paralleli, alternando alla figurazione esperienze non figurative e sperimentali. Negli stessi anni in cui nascono Il portinaio di via Solferino o Ambiente strano, infatti, nasce anche il ciclo degli Omaggi, che viene esposto (fuori catalogo) alla Triennale del 1933, nella sezione di grafica curata da Persico. Si tratta di cinque opere astratte che vogliono rappresentare, come abbiamo già detto, "le strutture della coscienza". Scrive infatti Persico nella lettera del 1933 ad Alfieri: "Oggi [?] la tua esperienza è riconfermata maggiormente con quei ?5 saggi': eccellente prova con l'avvicinarsi alle ideali strutture dello spazio di un Mondrian, inteso come ?le strutture stesse della coscienza' (che forse sonnecchiano nel tuo inconscio)" (Antologia 2). Con queste opere Alfieri si pone precocemente nell'ambito dell'astrattismo italiano, che proprio in quegli anni gravita intorno alla galleria del Milione. Il suo astrattismo, però, non nasce dal tardo cubismo, come quello di Reggiani, Bogliardi o Ghiringhelli. Nasce piuttosto da un nervosismo segnico indisciplinato: dentro una scatola magica, appena delineata e quasi cucita con una serie di segmenti, si agitano linee scomposte, cerchi, spirali che sono archetipi, visioni dell'inconscio. Del resto si conosce una serie di disegni, che l'artista datava addirittura a partire dal 1919, quando era appena quindicenne, che esprimono già nel titolo, I miei nervi, l'emergere di pulsioni irrazionali.6 È bene dire subito che questi disegni non vengono esposti se non in anni recenti: non solo per invitare a un esame critico delle date, che appaiono difficili da dimostrare, quanto per ricordare come l'artista non attribuisse una vera centralità a quella serie di prove.7 Alla luce degli Omaggi esposti alla Triennale, però, (questi sì mostrati a Persico, sia pure con l'umiltà che sempre contraddistingueva Alfieri) si comprende meglio la sensibilità dell'artista e il suo interesse per archetipi e nuclei emozionali, per quel rapporto tra materia e memoria predicato da Bergson ("il tuo caro Bergson" gli dice Persico, nella lettera del 1933). È una linea di ricerca, comunque, cui Alfieri affianca altre composizioni, impostate su strutture geometriche e ortogonali. Tra queste vanno ricordate Omaggio a Mondrian, databile allo stesso 1933 ("Consideri Mondrian un geometra inventore di scacchiere ? gli scrive sempre Persico ? E tu, pertanto, me ne fai omaggio di una, anzi di parecchie"). Oppure l'Omaggio a Soldati, datato anch'esso 1933, ma da posticipare almeno di un paio d'anni. Soldati, infatti, esegue dipinti a tarsia soltanto nel 1935 e ovviamente Alfieri non poteva rendere omaggio a quelle composizioni prima che fossero create. E, ancora, vanno ricordate opere vicine alla geometria e agli esercizi del Bauhaus come le sequenze poligonali e ortogonali sovrapposte, di cui vediamo in mostra un esempio del 1933, e le proiezioni radiali realizzate per la Fiera di Milano del 1934. Alfieri, insomma, a questa data oscilla fra diverse possibilità espressive. Con un atteggiamento anti-ideologico (molto vicino, sia detto per inciso, alla sensibilità contemporanea), esplora più linguaggi: pratica contem-poraneamente una figurazione che tende al primitivismo e un'astrazione ora gestuale, ora geometrica. È un atteggiamento, il suo, che Persico non condivide, anzi che rimprovera all'artista, accusandolo di duplicità stilistica: "Non comprendo questi tuoi ?cinque castissimi saggi', quelle tue ?Maschere', frutto della tua mente, sposate a quei problemi umani psicologici: così resi in tutt'altro genere della tua arte con profonda convinzione in quei ritratti: di Giovinette, Tuo padre, il Portinaio di via Solferino, Ambiente strano, Paesaggio adriatico, Mandolino, Fornaci, Macinino ed altri! Rifletti, su la tua duplice natura?" (Antologia 2). Persico era forse troppo duro. In realtà un atteggiamento anfibio, "duplice", non era cosa rara nel panorama del periodo. Cristoforo De Amicis, ad esempio, anch'egli nella cerchia degli artisti di Persico, attraversa intorno al 1934-1935 una fase astratta, che si insinua nel suo percorso di figurazione lirica. Di Marussig, uno dei fondatori del Novecento Italiano, si conosce una composizione totalmente non figurativa, nei modi di Soldati, riferibile alla metà del decennio. Per contro un'occhiata ai cataloghi generali di alcuni padri del nostro astrattismo come Reggiani, Melotti o Fontana rivela che le loro opere ispirate a Léger o a Vordemberge-Gildewart si alternano a una figurazione ora di ascendenza post-novecentista, ora di gusto neo-barocco. Era ingiusto, dunque, accusare il solo Alfieri di ambiguità stilistica. Certo nell'artista marchigiano, lo abbiamo visto, si avverte un'inquietudine più radicale, che lo porta a non rinunciare a nessuna possibilità espressiva. Come ha notato Giorgio Di Genova, "lo sperimentalismo di Alfieri soffriva di quelle ingenuità spesso tipiche dei pionieri, che non sanno far rinunce. Ogni tecnica nuova doveva essere provata e praticata".8 Analogamente, Renato Barilli ha parlato per l'artista di un "sorprendente mimetismo che non ha mai conosciuto soste e che lo ha portato di volta in volta a entrare in pelli diverse, non di rado avanzate e precoci".9 E Armando Ginesi ha efficacemente concluso: "Come artista [?] Alfieri va preso per quello che è, cioè padrone di due anime apparentemente dicotomiche ma che in lui sanno convivere, confrontarsi, finanche scontrarsi, dando vita (come gli atomi di Democrito quando si urtano) alla sua formidabile capacità creativa".10 Nel variegato universo di Alfieri la ricerca grafica, in particolare, acquista in questi anni un valore fondamentale. A partire dal 1932 l'artista crea una serie di cartelloni: per l'Esposizione del Cinema e per la Biennale di Venezia, per la Fiera Campionaria di Milano, per la Fiera del Levante di Bari. È l'inizio di un'attività che non abbandonerà più. Il manifesto pubblicitario, anzi, rappresenta una sorta di zona franca in cui può sperimentare le soluzioni più innovative. Abbiamo detto degli esiti astratto-geometrici, vicini al Bauhaus, nati per la Fiera Campionaria del 1934. Ci sono poi i cartelloni impostati sull'inserimento della fotografia (Lumiére, 1932; Visione cosmica, 1939) e quelli affidati all'aerografo, con effetti di sovrapposizione e di trasparenza (Sommovimento cosmico, 1937). In altri, ancora, l'uso della rete crea un diaframma insieme materico e anti-materico. In mostra ne vediamo un esempio del 1939 (La Divina), ma esiti significativi dovevano essere anche i pannelli oggi perduti del 1933. Ricorda l'artista stesso: "Usai la rete [?] particolarmente nel 1933 su tre pannelli: uno bianco, retinato bianco. Uno grigio, retinato grigio. Uno nero, retinato nero. ?Una terza dimensione, una nuova struttura' la definì Persico. Fontana ?una griglia interspaziale'. E la proposero agli architetti Figini e Pollini per ambientarla nella Villa-studio per un artista, costruita quale modello esposto nella Triennale del 1933. Questi tre pannelli non furono accettati da quegli architetti".11 Ma è soprattutto nei collages di figure che Alfieri raggiunge gli esiti più convincenti e suggestivi: deliziosi profili déco incastonati in delicate cornici arabescate (Pannello per la XIV Fiera di Milano, 1933-1934); reperti botticelliani accostati a damine, carrozze e abiti d'altri tempi (Pannello per la IX Fiera del Levante di Bari, 1938); figure classiche, emerse dai libri di storia dell'arte, affiancate e amalgamate da pennellate frettolose (Pannello per la XIV Fiera di Milano, 1940). Anticipatrice è la capacità, che ha l'artista, di creare mosaici interrotti, in cui l'immagine si insinua nella trama compositiva e la spezza, incastonando brani di realtà nel ritmo ornamentale dell'opera. Nel loro insistito decorativismo e nella loro rappresentazione incompiuta questi manifesti sembrano quasi preannunciare certi aspetti della figurazione post-informale e addirittura del New-Dada di Rauschenberg, di due o tre decenni successivi. Il senso della materia Con il finire del decennio si avverte nella pittura di Alfieri un intensificarsi e un raddensarsi della dimensione materica. In alcune nature morte, in particolare, come Carciofo secco o Rapanelli, datate entrambe 1940 (e la data apposta nei dipinti sembra affidabile, o comunque non posticipabile di molto, visto che le opere sono pubblicate nel catalogo della personale dell'artista alla Galleria Barbaroux, a Milano, del 1943) lo spessore della superficie si rafforza fino ad assumere un'evidenza pre-informale. Come sempre accade nel percorso di Alfieri, però, anche qui siamo di fronte ad una ricerca non univoca. Nello stesso anno in cui dipinge le "paste alte" di Carciofo secco, realizza la serie dei Cocci, in cui invece si rivela attento non alla matericità, ma alla scansione ritmica della superficie, che si spezza in frammenti. In Cocci, appunto.Pur nella varietà dei dati formali, comunque, si può avvertire una continuità nel lavoro dell'artista. È una continuità, lo abbiamo già accennato, tematica: l'interesse, carico di immedesimazione e di umanità, per un mondo di cose fragili, dimesse, disseccate. Anche il tema della distruzione, che con l'incrudelirsi della guerra si tramuta in quello dei bombardamenti, del crocifisso colpito e spezzato da una mina, dello studio in macerie (Relitti del mio studio, 1943), racchiude in sé lo stesso sentimento di debolezza e di vulnerabilità che si ritrova nelle nature morte, dove qualche gramo frutto emerge sfatto dallo sfondo o una foglia si accartoccia rinsecchita. Il rigoglio della materia non è, in Alfieri, un segno vitalistico, ma un'eccedenza anarchica: l'emblema di un disordine irrisolto, dell'emergere di un inconscio renitente a ogni logica costituita (Il mio arcano, 1943). Africa del 1944, ad esempio, è un grumo di gesso spaccato, in cui calce, colla e sabbia suggeriscono, come le contemporanee Sterpi, un senso di grevità riarsa. Non sorprende quindi, nei decenni successivi, trovare l'artista vicino a un ultimo-naturalismo di ascendenza lombarda. Accanto a certi esiti realisti, infatti, dipinge nel dopoguerra alcune opere vicine all'informale per la gestualità e la matericità della composizione (Campi arati-Conero, 1959; Piatto, 1961; Apocalisse, 1965). Frutto di una sensibilità materica è anche un ciclo di lavori più tardi, dove un frammento di legno diventa il nucleo ispirativo e generativo di una serie di composizioni (Crocifissi, 1968-1970). Anche nelle ultime opere, peraltro, si coglie la consueta incontentabilità stilistica dell'artista, che accosta senza soluzione di continuità rappresentazione e astrazione, realismo e materismo. Ma, al termine di questa breve ricognizione sulla sua pittura, potremmo ripetere le parole di Franco Russoli: "Tra le realtà dei luoghi, dei tempi e della società ? che ha illustrato con efficace dolente sentimento ? e la realtà del suo sentimento fantastico ? variazioni di timbri succosi di colore, e di rabeschi formali nati dalla sensibilità inquieta e drammatica ? Alfieri ha trovato un equilibrio e un rapporto originali. Nel panorama dela pittura egli si è conquistato malgrado le avversità un suo particolare posto, di diritto".12 Note 1 Con l'indicazione "Antologia", seguita da numero, si rimanda d'ora in avanti alla antologia di testi critici in fondo al volume. 2 L'attenzione agli ex-voto trapela dalle parole dell'artista stesso, che sognava ingenuamente di abbandonare Loreto "salutato da grandi spiriti, un tempo di casa nelle Marche, Melozzo da Forlì, Crivelli, Signorelli, mentre la basilica di Loreto rutilava di tutti i suoi ex-voto e tesori d'arte" (v. Antologia 1). 3 E. Persico, Via Solferino, "L'Ambrosiano", Milano, 9 settembre 1911. 4 Per un'indagine più complessiva sulla figura di Persico rimando a: Persico e gli artisti, a cura di E. Pontiggia, catalogo mostra, Milano 1998. 5 Attilio Alfieri, mostra al Circolo Filologico, Milano, 3-17 aprile 1934, presentazione in catalogo di Dino Bonardi. 6 Sui disegni di Alfieri si veda l'esaustivo volume di Miklos Varga, Attilio Alfieri.100 opere su carta dal 1919 al 1980, Milano 1987. 7 La datazione delle opere di Alfieri resta un problema aperto nella ricostruzione filologica del percorso dell'artista, in mancanza di documenti d'epoca. Senza nulla togliere al suo talento sperimentale, non bisogna dimenticare che spesso, per lui, le date avevano un valore più simbolico che notarile. Indicavano cioè un arco di tempo segnato da un evento affettivo, più che un dato cronologico. Molti quadri, ad esempio, sono datati da lui "1933", che è l'anno in cui gli muore la madre: la data indica un momento psicologico, uno stato d'animo, più che un riferimento meramente oggettivo. 8 Giorgio Di Genova, Storia dell'arte italiana del ?900. Generazione primo decennio, Bologna 1986, p. 140. 9 Renato Barilli, in Renato Barilli-Flaminio Gualdoni, Attilio Alfieri. Collages e disegni 1932-1953, Bologna 1978, pagine non numerate. 10 Armando Ginesi, Attilio Alfieri. Le due anime dell'enigma, catalogo mostra, Loreto 1989, Bora, Bologna 1989, p. 21. 11 A. Alfieri, Racconto di un'esperienza (1964-78), in Marcello Venturoli, Attilio Alfieri, Milano 1979. 12 Franco Russoli (1966), citato in Mino Borghi, Attilio Alfieri, Milano 1967, p. 10.