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Raffaele Carrieri I tetti alti di via Solferino, in Epoca, 1 marzo 1953

Non mi viene in mente il numero dello stabile in via Solferino ove aveva studio Tranquillo Cremona. Una lapide issata affianco dell'alto portone è stata cancellata dalla polvere. Fino a vent'anni fa gli ultimi piani del secondo cortile erano adibiti a studi. Una specie di casba fra i tetti ballatoi e scale a picco. Qualcuno al di sopra delle tegole, d'estate, coltivava il pomodoro. Credo fosse una tradizione dei pittori dell'antica scapigliatura. Si saliva agli abbaini attraverso una scala incassata nel muro come quelle che conducono alle torrette delle fortificazioni. Ci volevano buone gambe e fiato da pescatori di perle. Vi abitavano intere famiglie di pittori in piccoli locali infilati l'uno nell'altro come il guscio delle uova giapponesi. Lo studio di Spilimbergo veniva prima di quello di Del Bon o di Lilloni! La mia frequenza giornaliera ai tetti alti di via Solferino era limitata allo studio di Cesare Andreoni, pittore futurista. Sul canapè di Andreoni ho dormito i miei primi sonni milanesi. La porta era aperta a tutti gli amici. Andreoni era l'unico artista del casone che avesse sigarette fresche e la luce elettrica permanente. Nessuno gli aveva mai tagliato i fili: nemmeno quelli neri del telefono. Uno degli abitatori più timido e scontroso dei tetti alti di via Solferino era Attilio Alfieri, marchigiano di Loreto. Piccolo, olivastro, con gli occhi neri un po' impauriti, aderiva ai muretti con la prensilità di un gatto. Viveva di niente. La sera quando gli altri accendevano la luce con un giro d'interruttore, Alfieri rimescolava le ultime gocce di cera intorno allo stoppino. Non l'ho sentito mai lamentarsi. Passava giorni e giorni a lavorare dietro la portina chiusa. I suoi dipinti glabri e verdastri gli somigliavano. Erano patiti e credenti come lui. E dello stesso silenzio imbarazzante. Non so se le sue figure fossero state ispirate da vere e proprie modelle. Sembravano appartenere più che a un genere di modelle di professione alle orfanelle di un convento di provincia. Ragazze sparute, tuttocchio, con vestiti troppo stretti o troppo larghi. Ma quegli occhi fissi e spiritati non si dimenticavano. Quante ne ha dipinte in quegli anni Alfieri? Molte. Tante figure-sorelle. Nell'ultima personale di Alfieri alla Galleria Cairola ne ho rivista qualcuna. Nel catalogo erano contrassegnate con un semplice nome: Mariuccia, Bruna, la Rosa... La Fanciulla Monca era già di un altro periodo: c'era stata la guerra e Alfieri s'era eclissato alla periferia di Milano. Ma anche allontanandosi da via Solferino era rimasto fedele alle sue povere ragazze, al paesaggio delle fabbriche. Nelle ultime composizioni avevamo ammirato due o tre paesaggi industriali risolti con molta energia. Citiamo fra le cose che più ci piacquero da Cairola Stabilimento Minerali, Fabbriche laterizi, Sobborgo. Durante una recente permanenza nelle Marche, Alfieri ha dipinto una serie di pagliai e casupole di finissimo tono e alcune nature fra le sue migliori. Un accento familiare, timido e affettuoso permane senza perdere la genuinità della ispirazione. Nessun problema complesso ma un sentimento di calda comprensione, di aderenza alle semplici cose della natura. Dedicare l'intera vita a distinguerle, ad approfondirle, a renderle comunicanti è una impresa tra le più nobili e gentili. Non so se Alfieri disegni ancora a lume di lucignolo, e se le orfanelle frequentino il suo studio. Il Pittore non è mutato e il suo sguardo oscuro è sempre inquieto come quello dei gatti che hanno perduto la vecchia fata dei cortili.